La figura di Cesare Pavese, uno dei più grandi scrittori del ‘900, diventa ispirazione per un viaggio intimo alla ricerca dei fili che continuano a legare l’universo pavesiano al tempo presente. Girato nei luoghi simbolo di un immaginario poetico, il film parte dalle colline del Piemonte per arrivare al mare calabrese del “confino”: tra comunità macedoni che ripopolano le vigne dei contadini e storie di chi resiste in territori difficili anche in nome della letteratura. A sud di Pavese è un omaggio ad una forza che va oltre gli stessi riferimenti culturali, è l’esplorazione di un territorio in cui vita e letteratura si intrecciano fino a perdere i loro stessi confini.
A sud di Pavese prende le mosse da un ritorno, dopo più di dieci anni, nei luoghi in cui ho girato il mio primo documentario breve Filari di Vite. Anche allora volevo cercare Pavese nel presente, tra gli ultimi contadini delle Langhe che sembravano usciti dalle pagine dei romanzi. Tornare vuol dire percepire il tramonto di un mondo, vuol dire attraversare gli stessi riferimenti letterari per andare oltre e vedere che cosa rimane.
Pavese è diventato così la lente da indossare per rileggere la realtà, per cercare storie là dove lui ha trovato le sue, come se i luoghi fossero sorgenti ancora attive.
Matteo Bellizzi
Italia / 2015 / 56 min.
Regia: Matteo Bellizzi
Produzione: Stefilm
Seminare poesia fa bene alla terra
Cesare Pavese sapeva bene che la poesia non esiste di per sé, ma va scovata così come si cerca un fungo nel bosco. È un ritmo tra i tanti in cui il tempo si scompone, tra le mille possibilità di articolarsi in una storia. Soprattutto, Pavese sapeva bene che la poesia è prima di tutto una relazione tra chi cerca e il mondo che si nasconde o si disinteressa. È quell’accordo, miracoloso, fugace, persino illusorio, tra il ritmo interiore di chi va per il mondo – il suo cuore, si potrebbe anche dire – e le cose. C’è un momento, imprevedibile, in cui i due ritmi battono il medesimo tempo. Ma dura poco, ed è per questo che le poesie sono brevi. È una specie di regalo del mondo, ed è la più struggente delle illusioni: che l’uomo abbia il suo posto dentro un’orchestra, e che sia uno spartito la vita che ci è capitato di attraversare. Qualcuno sa qual è il punto in cui le note chiuderanno il sipario.
In questo senso A sud di Pavese di Matteo Bellizzi raccoglie un’eredità. Dentro questo film, così denso e commovente, c’è prima di tutto l’idea che tentare di accordare il proprio cuore al mondo sia molto di più di una consolazione, sia una scoperta, e in fondo una resistenza al brutto che avanza. Bellizzi scivola giù per l’Italia pavesiana, dalla Langa a Brancaleone Calabro, portandosi dietro più che l’immaginario di Pavese la sua poesia. Prova a vedere che spazio abbiamo lasciato alla poesia, sapendo che se la domanda è retorica e potrebbe esserlo anche la risposta, i giochi non sono già fatti una volta per tutte. Non c’è spazio per la poesia, verrebbe da dire, negli abusi edilizi che trova in Calabria, non c’è spazio per la poesia negli anziani disinnescati nelle case di cura, sottratti alla terra che li nutriva.
Eppure la poesia è prima di tutto smarcarsi dalla retorica, ed è lì che sta la grandezza e la bellezza di A sud di Pavese. Perché Bellizzi scivola giù lungo l’Italia lasciando poesia a ogni metro. C’è qualcosa di profondamente creaturale, nell’amore con cui in questo film la vita – tra cui gli esseri umani e i loro goffi tentativi di non soccombere al dolore – si mostra sullo schermo. Bellizzi semina poesia dietro di sé, che è un modo come un altro per provare poi a ritrovare la strada. Quello che lascia, alla fine del film, è una commozione che disarma ogni più cinico conto in sospeso con il mondo. E ai titoli di coda resta addosso anche una grande malinconia, che è un altro, forse il più grande, tra i lasciti di Cesare Pavese. L’idea che la malinconia non sia una sconfitta, ma solo una delle tante forme che prendono le cose negli occhi di chi le maneggia. E che ci sia una bellezza, e uno struggimento, in ogni congedo, senza che sia per forza una rinuncia.
Andrea Bajani