MY HOME, IN LIBYA

Dal 1970 i nonni di Martina vivono in un piccolo paese vicino a Padova. Nati in Libia negli anni ’30 sono stati espulsi da Gheddafi nel 1970 insieme ad altri 20.000 Italiani. Confiscati tutti i beni, da un giorno all’altro si ritrovano su alcune navi che li riportano in Italia, un luogo che è solo più un simbolo e non un’appartenenza. Da allora Antonio e Narcisa vivono isolati in una casetta piena di modesti ma densi richiami: una manciata di sabbia del Sahara, rose del deserto, piante grasse e un pappagallo di nome Marisa. Il tempo si è fermato, ma non per Martina che vuole saperne di più.  Così il nonno disegna per lei, sulla base dei ricordi, la mappa della sua Tripoli, distante ormai quasi mezzo secolo: corso Vittorio Emanuele, la cattedrale, il lungo mare, la via dove avevano il loro negozio di materiale elettrico. Intanto la Libia dei giorni nostri è nel caos più totale e Martina non può verificare con i suoi occhi quanto il nonno le rappresenta. La rete le viene in aiuto e riesce a stabilire un contatto con un giovane libico che, sulla base degli schizzi del nonno, inizia ad inviare immagini della Tripoli di oggi: i nomi delle strade sono cambiati, molti quartieri non esistono più, le milizie armate si dividono la città e spadroneggiano. A poco a poco il rapporto tra Martina e Mahmoud cresce in un fitto scambio di messaggi e immagini via internet. Da una parte una giovane che fa del territorio europeo la sua casa, dall’altra un giovane libico che non vede nessun futuro se non immaginandosi fuori dalla Libia.  Martina si avvicina al posto più estremo della Sicilia che si affaccia sul Mediterraneo mentre Mahmoud fa lo stesso dal litorale di Tripoli. I due si guardano senza vedersi, ma ormai si conoscono grazie alla rete. Intanto il nonno affida il suo destino e quello della nipote e di Mahmoud ad una scritta scolpita nel legno che pende da una parete: “tutto arriva per chi sa aspettare”.

Italia / 2018 / 66 min.
Regia: Martina Melilli
Produzione: Stefilm
In collaborazione con: ZDF, Arte, Rai Cinema
Con il sostegno di: Mibact, Piemonte Doc Film Fund, Regione Piemonte

NOTE DI REGIA

Io credo nel valore delle storie di singoli che riescono a raccontare un vissuto comune a molti, e nella coralità di un racconto per raccoglierne punti di vista e sfaccettature diversi. La storia di mio nonno Antonio è condivisa da tutti quegli italiani che hanno vissuto l’esperienza dell’espatrio forzato dalla Libia (1970). La storia di Mahmoud è quella di una generazione giovane che si trova a crescere e a formarsi in un paese senza una precisa identità, diviso da violenze e interessi, e che pure deve trovare in quel caos la strada per il suo futuro. Quello che li accomuna è la città di Tripoli, vissuta dal primo nel passato e dal secondo nel suo presente, considerata da entrambi come “casa propria”. Sono i dettagli privati e individuali a rendere queste storie uniche. Io mi sono formata tra Venezia, dove mi sono laureata in Arti visive, e Bruxelles, dove ho studiato cinema documentario e sperimentale. Viaggiare fa parte di me come persona e del mio lavoro, in quanto artista visiva e filmmaker. La rappresentazione della memoria, individuale e collettiva, e il ruolo delle immagini e dei media nella società contemporanea, assieme al senso di appartenenza e di cosa sia “casa” sono i principali interessi della mia ricerca e della mia pratica artistica. Noi tre condividiamo un presente dove cerchiamo di confrontarci, di darci delle risposte, di trovare il nostro posto nel mondo. Quando i miei nonni ripensano ai tempi d’oro di Tripoli, la parola che utilizzano più spesso è “fratellanza”; quello di cui più sentono la mancanza, sin da quando sono arrivati in Italia, è il senso di comunità che caratterizzava la loro vita lì. Il sentirsi parte di qualcosa. Pur essendo molto giovane, Mahmoud ha già perso questo senso di comunità nella sua terra. Io lo sentirò mai? Dove? Come? O forse, con chi?

Mahmoud era uno studente di ingegneria nucleare, ora laureato. Ci siamo conosciuti via Facebook e ha deciso di aiutarmi a ritrovare le tracce del mio passato, filmando con lo smartphone dal parabrezza della sua macchina i luoghi cari alla memoria di mio nonno. Nei mesi, ora anni, che passano il nostro rapporto digitale-epistolare è diventato una vera e propria amicizia. Noi non ci siamo ancora mai incontrati, non ci siamo nemmeno mai parlati: ci scriviamo soltanto. Ma questo crea anche una sensazione di protezione, in cui ci si sente tanto liberi di esporsi quanto al sicuro dallo sguardo dell’altro, da una reale intimità condivisa. Alla fine basta che uno dei due smetta di rispondere, ed è come se la cosa non fosse mai esistita: sparita nel nulla. Ed è di questo che ho paura, che all’improvviso lui possa sparire nel nulla, e di non capire se sia perché gli è successo qualcosa o perché ha deciso di non rispondere più. I nostri scambi si nutrono di immagini e racconti, scoprendo a vicenda e sempre più a fondo chi è “l’altro”, il proprio quotidiano, i propri sogni, le ambizioni. Le differenze sono tante, al di là di quelle ovvie di genere e di provenienza geografico-culturale. Il ruolo che il cinema ha nella mia vita, ad esempio, è fondamentale, così come la presenza del viaggio, dello spostamento. Cose che invece lui, Mahmoud non conosce: non si è mai mosso dalla Libia, in cui i mezzi pubblici non esistono, e gli aeroporti che c’erano ora sono stati rasi al suolo o caduti in mano alle milizie e allo stato Islamico. I cinema invece sono stati chiusi e vietati, e lui non ci è mai stato. Forse una sola volta, da bambino, ma era piccolo, e non se lo ricorda. Siamo però entrambi alla ricerca di chi, cosa, e dove, saremo “domani”. Di cosa sia, di dove poter costruire, “casa”.

La situazione socio-politica della Libia non sembra accennare a nessun miglioramento. Anzi, appare sospesa in una stagnante tensione costante, che sembra tenda più all’involuzione che alla risoluzione dei conflitti. E fuori da lì se ne parla sempre meno. È come se si aspettasse, in silenzio. Ma cosa? Questa attesa è straziante e lui spesso accenna spesso all’idea di prendere uno di quei barconi che scelgono in tanti come via di fuga. La cosa mi spaventa moltissimo, cerco di fargli capire che non è una soluzione, che il rischio è troppo alto. Ma lui dice di non avere niente da perdere.

Sul finale, mio nonno guarda fuori dalla finestra, il suo unico oblò sul mondo, verso una sorta di altrove indefinito. Pensa al passato? Immagina il tuo futuro? “Tutto arriva per chi sa aspettare” mi dice. “E tu cosa aspetti, nonno?” gli chiedo. “Non lo so”. E un po’ non lo so nemmeno io. Ma aspetto.

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